IL CAMMINO LEGISLATIVO DELL'ACQUA IN ITALIA

Oltre 700 gestori, suddivisi in 5 tipologie di soggetti giuridici e 72 affidamenti fatti da circa 90 Autorità d'Ambito Territoriale Ottimale (AATO): sono questi i numeri che descrivono la giungla del servizio idrico italiano. Un ginepraio di gestioni, in cui convivono soggetti pubblici, privati e misti, nel suo complesso ancora alla ricerca del miglior assetto in termini di efficienza industriale ed equilibrio economico.

Tuttavia, l'acqua e la sua gestione hanno avuto una storia molto movimentata, caratterizzata da continui rimaneggiamenti legislativi che non aiutano a dare stabilità a un settore che ne avrebbe, invece, disperato bisogno.

L’acqua è stata dichiarata pubblica nel 1933 da un Regio Decreto, che la decretava come proprietà dello Stato prevedendo che ogni uso dovesse essere autorizzato e affidato mediante concessioni.

Negli anni '60, in pieno boom economico, si è cercato di mettere ordine in tema di acquedotti, soprattutto per far fronte al notevole aumento dei consumi idrici.

Nel 1976 si comincia a puntare a una visione ambientale tenendo conto anche dell'acqua: la legge 319/76, detta anche "legge Merli", contiene le direttive finalizzate a un impiego più razionale delle acque, regolando lo scarico delle acque reflue, imponendo che rientrino, per determinate sostanze, in precisi valori-limite. Inoltre, indica le competenze pubbliche della materia, con particolare riguardo al controllo degli scarichi e ai servizi di pubblica fognatura.

Il primo vero passo verso la privatizzazione dell’acqua italiana si compie con la promulgazione della Legge Galli. La legge del 5 gennaio 1994 n.36, come spiega Paolo Carsetti, segretario del Forum italiano dei movimenti per l'acqua, "ha sancito, infatti, il principio del full recovery cost. Principio in base al quale tutto il costo della gestione del servizio idrico deve essere caricato sulla bolletta e non é più, quindi, la fiscalità generale a farsene carico".

Fino a quel momento c'era stata forte frammentazione tra i gestori del servizio. All'interno dello stesso territorio ce ne erano tanti: uno che faceva fronte ai servizi di captazione, uno per l'adduzione ed un altro per la depurazione. Uno spezzettamento che aveva portato alla presenza di "un numero di gestori superiore a quello dei comuni". Di fronte a questo stato di cose, la Legge 36 ha introdotto il concetto di ciclo integrato dell'acqua e quindi la necessità di un unico gestore per l'intero ciclo. A questo fine ha individuato gli Ambiti Territoriali Ottimali (ATO) in corrispondenza (almeno in linea teorica) dei bacini idrografici (in realtà sono stati ricalcati i confini amministrativi).

Detto che il mercato dell’acqua vale 5 miliardi di euro, la maggior parte dei gestori sono S.p.A. (Società per Azioni) , in parte controllate dal pubblico, in parte private e molto spesso miste. Il problema sorge dal momento che queste S.p.A., pubbliche o private, assumono un servizio idrico integrato e utilizzano una logica mercantile e privata: fare profitto.

Se si mercifica l’acqua, si mercifica anche la vita.

Nel 2000 é arrivato il Tuel, il Testo Unico Enti locali che ha previsto le seguenti modalità di affidamento per la gestione del servizio idrico: alle S.p.A. private scelte con gara; alle S.p.A. miste pubblico-private e alle S.p.A. pubbliche tramite affidamento diretto. Di fatto però, rileva il segretario Fima, "in molti casi le gare non si sono svolte e in ogni caso nel Tuel é rimasta, se pure in parte residuale, la possibilità di gestire l'acqua attraverso enti di diritto pubblico".

Il decreto Ronchi del 2009, in particolare, prevede due modalità per la gestione dell'acqua, una in via ordinaria, un'altra in via straordinaria. Si stabilisce così che la gestione del servizio idrico debba essere affidata a un soggetto privato (scelto tramite gara a evidenza pubblica), oppure a una società mista (pubblico-privato, nella quale il privato sia stato scelto con gara). Oppure, ed è il caso straordinario, la gestione del servizio idrico può essere affidata ("in casi eccezionali") in via diretta, vale a dire senza gara, a una società privata o pubblica.

In tal caso, però, si deve in primo luogo trattare di una società in house, ossia una società su cui l'ente locale esercita un controllo molto stretto; in secondo luogo, l'ente locale deve presentare una relazione all'Antitrust in cui motiva la ragione dell'affidamento senza gara. In terzo luogo, l'Antitrust deve dare il proprio parere.

A causa di tale decreto vi sono state molto proteste da parte di vari comitati per l’acqua come bene comune, che hanno denunciato pubblicamente il rischio dell’aumento delle tariffe e della perdita di controllo di una risorsa strategica per il governo del territorio, a favore di imprese private e compagnie multinazionali.

Il risultato di queste discussioni è sfociato nel referendum abrogativo del 2011 che poneva i seguenti quesiti:

  1. abrogare o confermare l'articolo 23bis della legge 133 del 2009 ("Legge Ronchi") che stabilisce che i gestori dei servizi locali a rilevanza economica, come il servizio idrico integrato, i trasporti pubblici e lo smaltimento dei rifiuti, debbano essere scelti dall'ente locale attraverso una gara d'appalto, riducendo la possibilità dell'affidamento diretto a una società pubblica cosiddetta "in house", ossia una società con gestione aziendale autonoma ma capitale interamente pubblico e partecipata dall'ente locale di riferimento.

  2. abrogare o confermare il comma 1 dell'articolo 154 della legge152 del 2006, che stabilisce che nel costo finale dei servizi idrici, pagati dal “cittadino-utente” in bolletta, debba essere inclusa la remunerazione del capitale investito, fissata per legge al 7%.

La maggioranza ha votato Sì. Ventisei milioni di italiani hanno deciso di non confermare la norma che avrebbe reso più impegnativo e costoso, per gli enti locali, mantenere gli affidamenti diretti "in house" dei servizi idrici e di altri servizi pubblici locali.

L’esito del referendum ha fatto emergere l’interesse e la protesta dei cittadini. Tuttavia, tutti i partiti di maggioranza al governo e i vari sindaci di piccole e grandi città hanno ignorato tale votazione. Quando non si rispetta il volere del popolo non si vive in una democrazia, bensì in uno stato dittatoriale. Il decreto Ronchi è stato revocato, ma a Palazzo Chigi nessuno sembra essersene accorto.

Nel luglio del 2012 la Corte Costituzionale ha bocciato alcune norme in materia, contenute nel decreto legge "cresci-Italia" del governo Monti, perché contraddicevano la volontà popolare espressa nei referendum. Dal marzo del 2013 le competenze in materia sono state trasferite ufficialmente all'Autorità per l'energia elettrica e il gas, che ha chiesto un parere al Consiglio di Stato. Contenuto del parere: bisogna restituire agli utenti la parte delle bollette pagate relativa alla «remunerazione del capitale investito».

Con lo “Sblocca Italia” prima nel 2014, con la Legge di Stabilità poi, è stata indicata la necessità di concentrare i servizi pubblici locali nelle mani di poche grandi multi-utility, capaci di competere all’estero. I Comuni sono stati incentivati a privatizzare i servizi pubblici a rete (acqua inclusa) attraverso sconti sul Patto di Stabilità interno.